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Esiste una confraternita di artisti che al motto «l’arte si fa a cena» ha attraversato i secoli per giungere con il suo spirito liberale e conviviale fino ai giorni nostri, è la Compagnia del Paiolo. Fondata nel 1512 a Firenze da

Esiste una confraternita di artisti che al motto «l’arte si fa a cena» ha attraversato i secoli per giungere con il suo spirito liberale e conviviale fino ai giorni nostri, è la Compagnia del Paiolo. Fondata nel 1512 a Firenze da Giovan Francesco Rustici riuniva alcune delle menti più geniali della città del Rinascimento fiorentino. In un libro da poco uscito per Sarnus (130 pagine, 16 euro), Pier Francesco Listri ne ripercorre la storia, antica e moderna, soffermandosi in particolar modo sugli avvenimenti che ne hanno caratterizzato la vita, dopo la sua rinascita nel 1950. A l’autore abbiamo rivolto alcune domande per aiutarci a capire cosa è stata la Compagnia del Paiolo. Nel 2012 la Compagnia del Paiolo festeggerà mezzo millennio di vita, quali furono le ragioni della sua nascita e quale lo spirito dei suoi fondatori?«Le ragioni della nascita della Compagnia del Paiolo vanno definite pensando che un tempo gli artisti non erano seriosi come oggi. Erano degli uomini comuni, spesso venuti dal popolo, allegri, ridanciani e sempre in vena di scherzi. E tale modo di essere coinvolgeva anche i grandissimi, si pensi agli scherzi fatti da Michelangiolo ... I personaggi che formavano questo gruppo, che comprendeva grandissimi personaggi come il vecchio Botticelli, Andrea del Sarto, Leonardo da Vinci, pensarono di riunirsi in cene, tutti insieme, in compagnia, per divertirsi a spassarsela, parlare anche di arte, ma fare dei divertimenti fra di loro, fra cui appunto queste cene in cui ognuno preparava dei piatti particolarmente scenografici secondo il loro estro di pittori».
Lo potremmo definire una sorta di Goliardia ante litteram le cui origini affondano appunto  nel basso Medioevo?
«Beh, Goliardia direi di no, visto che erano uomini forniti di grandi “attributi”, nel senso che erano tutti personaggi straordinari. Però indubbiamente c’era questa vena fiorentina della beffa, del divertimento e dello svago, del resto a quel tempo era diffuso anche nel popolo».
Il tutto avveniva al motto «l’arte si fa a cena». C’è qualcosa di più profondo in esso oppure prevaleva il semplice lato della convivialità fra artisti?
«Io direi che c’è qualcosa di più profondo. «L’arte si fa a cena» vuol dire che ogni arte non è astratta, non è utopica, ma è legata alla realtà, parte dai sensi. Come si potrebbe pensare che i pittori non si servano della vista, gli scultori del tatto, ecc ... e ovviamente a cena il principale senso ad essere sollecitato è il gusto. Ecco allora che questa partecipazione alle bellezze della natura da gustare diventa quasi una lezione di estetica».
Come si è caratterizzato in campo culturale l’impegno della Compagnia prima della sua decaduta?
«Diciamo intanto che la Compagnia del Paiolo non era la sola. C’erano anche la Compagnia della Cazzuola, quella del Calderone e della Casseruola, cioè le compagnie degli artisti allora erano diverse. Questa è rimasta la più celebre perché aveva dei partecipanti prestigiosissimi e perché durò un certo tempo, ma non moltissimo. La sua fortuna è stata poi ripresa nel 1950 dagli artisti del nostro secolo».
Quindi diciamo che ha avuto natali antichi, ma vita breve...
«Esatto, natali antichi e una vita breve, anche se molto numerosa e piacevole».
E come, invece, si è caratterizzato l’impegno della Compagnia dopo il 1950?
«La Compagnia del Paiolo è quella che ha raccolto il maggior numero di artisti con grande liberalità. Non era all’insegna di una certa scuola pittorica, architettonica o scultorea, ma era aperta a chiunque fosse un buon artista, cioè accettava le scuole più diverse. Questo ha permesso ad una Firenze molto individualista far sì che grandi nomi partecipassero. Da Annigoni a Vinicio e  Antonio Berti, fino ai fratelli Bueno ...Insomma tutti gli artisti son passati da qui perché era il luogo in cui ci si riuniva, c’era convivialità, si stava bene insieme e si poteva parlare di arte».
Quali sono stati i momenti più alti della Compagnia?
«Ci sono stati dei contatti molto importanti con artisti di primo piano, come Mirò, Picasso, lo stesso De Chirico, al quale fu istituito addirittura un “processo”, processo naturalmente allegro, fatto da artisti della sua arte. Ma i contatti non si sono limitati al mondo dell’arte. Per esempio la Compagnia del Paiolo è stata più volte ricevuta dai pontefici, in Vaticano, ed è stata ricevuta anche in Senato dall’allora presidente Fanfani, che era un paiolante d’onore, come poi lo sarà pure Giovanni Spadolini, altro prestigioso uomo politico e di cultura. Quindi non è stata chiusa in se stessa, ma si è aperta al mondo culturale e politico del tempo».
La Compagnia nella sua lunga vita ha incrociato molti uomini e personaggi del mondo della cultura e non solo: quali sono le storie e aneddoti più memorabili?
«Aneddoti ce ne sarebbero tanti, ma non ce n’è nessuno dall’esemplarità assoluta. Devo dire però che chi entrava come paiolante d’onore veniva prima vestito con delle splendide cappe di ermellino, come si addiceva alla tradizione nobile fiorentina, e poi veniva battezzato dal Presidente rovesciandogli sulla testa una piccola quantità di vino. Quindi si trattava di un vero e proprio battesimo e poi tutto avveniva a tavola». Ci sono elementi di continuità fra la compagnia originaria e quella novecentesca?
«Fra il Cinquecento e il secolo scorso le differenze sono talmente grandi che è difficile pensare ad una forte continuità. Tuttavia se ne possono rintracciare alcuni elementi nello spirito come ad esempio essere tolleranti, stare insieme e non perdere mai il senso dei piedi per terra e della realtà a tavola».
Data recensione: 04/03/2008
Testata Giornalistica: Metropoli
Autore: Jacopo Nesti