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Per molti anni piazza San Giovanni a Firenze ha ospitato un leone vivo, poi son diventati due, e infine quattro. E se vi foste recati in centro a passeggio li avreste visti lì, accanto al Battistero, in un surreale accostamento di

Per molti anni piazza San Giovanni a Firenze ha ospitato un leone vivo, poi son diventati due, e infine quattro. E se vi foste recati in centro a passeggio li avreste visti lì, accanto al Battistero, in un surreale accostamento di natura selvaggia e sublime cultura. È storia di parecchi secoli fa, più o meno della seconda metà del Duecento. Impegnati ad affermare la propria indipendenza dal potere dell’imperatore tedesco, cui fino ad allora Firenze era stata assoggettata, i fiorentini decisero che anche il proprio simbolo andava irrobustito, stimando la gentilezza del giglio, elegante ma nient’affatto pugnace, inadeguata ad esprimere la propria crescente fierezza politica. In contrapposizione all’aquila imperiale, fu scelto così il leone che allegoricamente avrebbe sbranato il rapace, mostrando anche sul piano araldico l’ardimento della repubblica fiorentina. Nasceva così il Marzocco, cioè il tipico leone fiorentino seduto con una zampa poggiata sullo scudo gigliato, e in breve tempo la città si riempì di esemplari in pietra e dipinti del regale felino. Non contenti però della diffusione dell’effigie, in un periodo in cui l’autorità podestarile era di tendenze ghibelline, il popolo fiorentino volle un leone vero, in carne ed ossa, da tenere in gabbia in piazza San Giovanni. Ma la morte e la mala sorte son sempre alle porte, ed è così che un giorno la porta della gabbia non fu chiusa bene, e il leone fuggì per la città creando il panico generale. Che poi si trasformò in incubo quando il felino prese fra le fauci un bimbo sfuggito al controllo della madre. Come lo tenesse, le numerose cronache del fatto riportano versioni diverse. L’ipotesi più accreditata è quella che il piccolo Orlando (questo era il suo nome) fosse sospeso per le vesti dal leone, che lo portava con sé penzoloni, quasi lo tenesse per la collottola proprio come un cucciolo. Il felino percorse così quasi completamente l’attuale via dei Calzaiuoli fino ad entrare nella chiesa di Or San Michele. A quel punto la madre del bimbo, che fino ad allora era stata trattenuta a stento dalla folla, riuscì a divincolarsi per andare a strappar di bocca al leone il figlio. Quando riapparve fuori con il piccolo Orlando in braccio, rimasero tutti impressionati e qualcuno gridò anche al miracolo nel vedere che il bimbo non aveva neppure un graffio e il leone, calmo e tranquillo, si lasciava ricondurre in gabbia. Successivamente i leoni vivi furono due, un maschio e una femmina, in modo da evitare per qualsiasi ragione il rischio di rimanere senza quel talismano vivente, alla cui presenza in città si attribuivano particolari significati propiziatori. Poi un giorno, fatto assolutamente eccezionale per animali in cattività, la coppia di leoni dette alla luce due cuccioli, suscitando il giubilo generale per quello che fu interpretato come il miglior auspicio di un destino glorioso per la città di Firenze. Solo un archeologo di storie come Giuliano Cenci poteva recuperare vicende come questa rimasta per secoli seppellita nei più profondi strati della nostra memoria. Solo il suo sguardo curioso e appassionato poteva restituire a quei numerosi segni, simboli, tracce, vestigia, che qua e là affiorano come rebus nel tessuto architettonico della città, un significato, un senso in grado di riallacciare i fili con il passato che li ha originati. Il frutto dei suoi “scavi”, delle sue indagini, sono raccolti nel volume “Firenze segreta” da poco pubblicato per Sarnus (192 pagine, 12 euro). Per un fiorentino o per chiunque sia interessato alla storia della città del Giglio, questo volume costituisce un’incredibile fonte di aneddoti, curiosità, fatti divertenti e vicende. Soprattutto fornisce le spiegazioni a quei piccoli e grandi misteri che albergano all’ombra della Cupola e su cui spesso ci siamo interrogati senza però trovare risposta alla nostra curiosità. Un esempio emblematico di ciò sono le colonne annerite che si trovano ai fianchi della Porta del Paradiso del Battistero. Chi le ha viste, riuscendo a guardare con occhi vergini quella facciata, avrà certamente notato come esse siano assolutamente aliene alla struttura architettonica, appoggiate lì come due corpi posticci, sicuramente riconducibili a qualcosa che al momento ci è oscuro, ma che in qualche maniera deve giustificare quella insolita collocazione. La loro singolare vicenda si lega con un’altra storia che vede coinvolte in un’inedita alleanza le due città nemiche di Firenze e Pisa. La potente repubblica marinara, storica nemica della città gigliata lungo tutto il Medioevo, tanto da forgiare a Firenze il modo di dire popolare meglio un morto in casa che un pisano alla porta, agli inizi del XII secolo sancì con l’esercito fiorentino un particolare patto d’alleanza. Scopo dell’intesa era quello di difendersi da eventuali attacchi esterni, durante la spedizione militare che la flotta e l’esercito pisani avrebbero compiuto per debellare la minaccia saracena che notevole danno arrecava alla prosperità dei commerci, tanto di Pisa quanto di Firenze. Nell’interesse comune si realizzò dunque fra le due città questa “tregua d’armi”, che contemplava inoltre l’accampamento dell’esercito fiorentino fuori dalle mura pisane per un miglior presidio del territorio. Forti della “parola d’onore” dei fiorentini, nel 1113 le forze militari pisane poterono muovere a ranghi completi alla volta delle Baleari per dare la caccia ai saraceni, lasciando così soltanto i fiorentini a guardia della propria città. Il comandante delle truppe fiorentine preferì non entrare in città per evitare che qualche militare potesse recar fastidio in vario modo alla popolazione civile. A tale scopo emanò anche un bando molto severo per assicurarsi che nessuno dei suoi soldati entrasse di nascosto in città. Accadde però che uno dei fiorentini, un giovane cavaliere forse innamorato di una ragazza pisana, disobbedì al bando intrufolandosi in città. Quando tornò all’accampamento fu subito arrestato e condannato dal comandante, seduta stante, all’impiccagione. A niente valse l’implorazione alla clemenza da parte della stessa popolazione di Pisa, profondamente toccata e commossa dal caso del giovane cavaliere innamorato. E neppure la proibizione formale di eseguire la condanna sul territorio pisano arrestò il proposito dell’intransigente comandante. Per aggirare anche questo ostacolo, fece acquistare di nascosto da un suo incaricato un piccolo appezzamento di terra, in modo che anche sul piano formale l’esecuzione si tenesse sul suolo fiorentino, e con buona pace di tutti eseguì la condanna. La caccia dei pisani ai pirati saraceni si concluse con pieno successo, riuscendo a distruggere tutte le loro navi e a saccheggiare la loro base nell’isola di Maiorca. La flotta pisana tornò quindi in patria con un lauto bottino di guerra tra cui anche le due colonne di porfido. Si diceva che queste avessero una virtù magica, arte nella quale i saraceni erano considerati maestri. Pare che nascondendosi dietro di loro, si potesse vedere nei loro riflessi la vera natura delle persone che vi passavano di fronte, rivelando ladri, falsari, assassini e traditori. I pisani dunque per ringraziare i fiorentini dell’assoluta onestà e correttezza con cui avevano vigilato sulla loro città, vollero donare a Firenze queste due colonne, che però stranamente erano avvolte in grandi drappi rossi. Finita la tregua, i sospetti e le maldicenze tra pisani e fiorentini si riaccesero subito, addirittura prima ancora che l’esercito fiorentino fosse rientrato a Firenze. In particolare destava qualche maligna diffidenza proprio quella singolare “confezione” di drappi rossi. Quando i sospettosi fiorentini svestirono le colonne e scoprirono che erano state annerite dal fumo di un incendio, si convinsero di nuovo della malafede dei pisani. Il fuoco che le aveva annerite poteva essere verosimilmente conseguenza del saccheggio subito dai saraceni sull’isola di Maiorca, ma i fiorentini preferirono pensare che erano state deliberatamente “arrostite” dai pisani per togliere loro ogni potere magico, affinché non si potesse scoprire quanto loro fossero ladri, falsari assassini e traditori! La tradizione vuole che i fiorentini avrebbero poi scelto quella particolare collocazione, appoggiate al Battistero, proprio per ricordare ai posteri la loro onestà e l’inganno dei pisani.
Data recensione: 08/07/2008
Testata Giornalistica: Metropoli
Autore: Jacopo Nesti