chiudi

Si conobbero grazie a una rivista a fumetti che oggi non c’è più. Si chiamava “Il Grifo”, gli appassionati la ricordano come uno dei migliori comic magazine mai pubblicati in Italia. Il suo editore, il toscano Mauro

Lo scrittore Carlo Lapucci:«Lavoravamo insieme a un progetto suelle favole»Si conobbero grazie a una rivista a fumetti che oggi non c’è più. Si chiamava “Il Grifo”, gli appassionati la ricordano come uno dei migliori comic magazine mai pubblicati in Italia. Il suo editore, il toscano Mauro Paganelli, era molto amico di entrambi. Con Carlo Lapucci, fiorentino, affettuosamente chiamato “Il nonno di Toscana” dai lettori dei suoi libri dedicati alle nostre tradizioni popolari, autore prolifico di racconti e romanzi, si conoscevano da una vita. Con Federico Fellini, invece, l’editore toscano iniziò a collaborare qualche anno prima.
Oltre ai grandi del fumetto, Manara, Pratt, Pazienza, “Il Grifo” aveva iniziato a pubblicare testi e disegni del nostro regista più importante. Che, nel 1990, aveva un sogno. Dedicare un film - l’ultimo - al mondo delle fiabe. Si documentava già da tempo, Fellini. Andava in cerca di libri e saggi. Accumulava materiali, appunti, disegni. Ovviamente, si imbatté anche nei titoli di Carlo Lapucci. Il “Libro delle veglie. Racconti popolari di diavoli, fate e fantasmi” e le “Fiabe toscane” gli piacquero tanto da voler incontrare l’autore. Quando seppe che Paganelli lo conosceva bene, gli chiese di organizzare una cena. L’ultimo sogno felliniano iniziò così, all’albergo Il Patriarca di Chianciano Terme, attorno a un tavolo di ristorante. Durò tre anni, dal’90 al’93. Troppo poco perché si realizzasse. Le ultime “riunioni di lavoro” tra Fellini e Lapucci risalgono all’estate del 1993. Dopo pochi mesi, il 31 ottobre di quindici anni fa, il regista muore a Roma. «Su una cosa ci trovammo subito d’accordo: le fiabe sono vere», racconta Lapucci. «Il loro messaggio è universale perché fondato su forze primigenie e istintive. Spesso parlavamo di una distinzione che avevamo elaborato, quella tra “uomo civilizzato” e “uomo essenziale”. Quest’ultimo ragiona tirando in ballo meccanismi primordiali, lavora sulle grandi categorie: bene e male, giusto e sbagliato, bello e brutto, amore e odio. Che poi sono quelle che alimentano le fiabe. Queste, illustrando i meccanismi primordiali, esemplificano l’uomo essenziale. E quindi spiegano tutto il resto. È questa la loro straordinaria ricchezza». Il primo incontro. «Fellini frequentava Chianciano da una vita. Era molto legato a quei luoghi. Non a caso “Otto e mezzo” è ambientato a Chianciano. Diceva che le atmosfere termali hanno qualcosa di particolare, onirico, una specie di propensione naturale al fantastico. Le sue estati le passava lì. “È un mondo a sé”, diceva. Del nostro primo incontro al Patriarca ricordo la cordialità familiare che da subito ci rese vicini. Nessuna etichetta. Nessuna soggezione. Un po’ mi stupì il fatto di scoprirlo così alla mano. Ma la vera sorpresa arrivò quando mi disse di conoscere i miei libri. Tra le cose che aveva raccolto per il lavoro sulle fiabe, c’erano anche le mie. Mi disse “Sono in cerca di un’idea, tu devi aiutarmi. Serve un motore per la trama. Qualcosa che provochi un viaggio che salta da una favola all’altra. Hai mica già qualcosa che fa al caso nostro?». Lapucci ce l’aveva. Un racconto, per la precisione. Scritto diverso tempo prima e momentaneamente lasciato in un cassetto. C’era già anche il titolo: “Silicon Valley”. Una fiaba che parla di fiabe, recentemente pubblicata da Francesco Rossi Editore. Tutto ruota intorno a un escamotage surreale: Gregorio Gondolin e Tiberio Inzaputi, dipendenti della “Biblioteca Maraventana”, finiscono nell’hard disk di un super-computer portato lì dai giapponesi, decisi a digitalizzare tutti i volumi presenti nell’edificio. Una volta miniaturizzati, Gondolin e Inzaputi iniziano a peregrinare tra i file, incontrando i personaggi dei libri già assorbiti dall’infernale macchinario, tra cui: i bravi di Don Rodrigo e Don Abbondio, Robinson Crusoe, l’Ortis e il Werther, l’Abate Faria e il Conte di Montecristo, i personaggi delle avventure di Pinocchio, il Principe Azzurro. Una storia che apre a infinite altre storie. Un incastro di scatole cinesi. Esattamente ciò che serviva a Fellini.  Silicon Valley. «Infatti, pensai subito che il meccanismo di “Silicon Valley” poteva funzionare. Glielo portai così com’era. Fellini lo lesse, e il giorno dopo mi disse che ora avevamo il nostro punto di partenza. Ci demmo appuntamento per il pomeriggio successivo. L’hotel ha un bel parco, ci trovavamo sempre lì. Lui era curioso, domandava e domandava, e nel frattempo prendeva appunti e faceva disegni. Mi faceva delle vere e proprie interviste, spremendomi come un limone. Era estremamente coinvolgente, sapeva cosa chiedere e come ascoltare. Voleva notizie sul mondo contadino e le sue usanze. Si divertiva a fare confronti tra le tradizioni della sua terra, la provincia di Rimini, e quelle della Toscana. Per lui era uno spasso trovare la filastrocca o il modo di dire che c’era qui e c’era anche di là. Credo che il vero Fellini venisse fuori in queste occasioni dimesse, un po’ appartate, informali. E che tutto sommato, quella che indossava per il mondo dello spettacolo fosse una maschera. In certe occasioni, però, la maschera se la toglieva. Scompariva il Fellini planetario e metropolitano, appariva un uomo fatto per la vita dei borghi, per i tempi lunghi della campagna». I paesaggi toscani. «Mi chiese anche se potevo aiutarlo a trovare dei posti suggestivi che potessero andare bene per le riprese. Iniziai a macinare chilometri con la macchina per cercare i luoghi giusti in cui ambientare le storie di cui parlavamo. Una sera, facemmo insieme una girata notturna. Gli feci visitare Montepulciano. Quando arrivò alla piazza Grande, di fronte alla gradinata che sale fino al duomo, quella che si usa per mettere in scena i “Bruscelli”, rimase incantato». Di libretti per drammi in forma di Bruscello Poliziano, rappresentazione popolare che a Montepulciano caratterizza la festa per l’Assunta, Carlo Lapucci ne ha scritti diversi. Fellini conosceva anche quelli. «Arrivammo fino alle Buche delle Fate. Durante i nostri ultimi incontri gli parlai anche delle cascate dell’Acquerino, sull’Appennino Pistoiese; e dei boschi meravigliosi che si trovano nelle zone del Mugello, soprattutto dalle parti di Monte Giove. Rimanemmo d’accordo che prima o poi ce l’avrei portato». L’ultimo Fellini. «Era sempre vivace, pronto, entusiasta, ma quella sua carica non riusciva a nascondere del tutto un senso di disillusione e amarezza che, a tratti, traspariva dal suo sguardo. Non aveva più la sua droga: il cinema. Quella macchina delle meraviglie che un tempo gli ruotava intorno e che adesso era svanita. Spesso mi parlava delle difficoltà che aveva a trovare qualcuno disposto a investire sulle sue idee». Scrive Lapucci nella “Nota a Silicon Valley”: “Mi parlava di diverse prospettive per realizzare i suoi progetti, d’una pubblicità che aveva fatto per la televisione, da cui poteva svilupparsi un rapporto di produzione, delle difficoltà che incontrava nel trovare finanziamenti. Devo dirlo: era penoso, sentir parlare in quei termini il più grande dei nostri registi quasi costretto all’inerzia, mentre ancora era una forza culturale e artistica preziosa e rara”. «Poi, di colpo, tornava a parlare del futuro, di come avrebbe dovuto essere questo film. “Dentro alle fiabe c’è tutto quello che uno deve capire sul mondo”, diceva. Intanto scriveva, disegnava, scriveva. Una volta, eravamo a tavola, pur di non dimenticarsi un “rebus lussurioso” - non glielo dico, è da censura - se lo scrisse sul tovagliolo. Che poi mise in tasca. Mi ripeteva che di “Silicon Valley” gli piaceva molto il fatto che i protagonisti delle fiabe che compaiono nella trama “si guardano dall’esterno”». Pinocchio, i bravi, Don Abbondio e compagnia bella, in “Silicon Valley” vivono una vita sdoppiata: se il file della loro storia è in funzione, si comportano secondo tradizione e recitano il proprio ruolo; se invece la trama che il loro autore gli ha cucito addosso è momentaneamente disattivata, allora “si guardano dall’esterno”, ossia riflettono sul loro destino di personaggi, fanno commenti su storie e autori, hanno idee proprie, di frequente polemizzano. Poi il loro file riparte, e tutto torna in funzione del “C’era una volta”. «Fellini diceva che questo sdoppiamento, alla fine, è un po’ la verità dell’uomo. Che tutti noi dobbiamo per forza destreggiarci tra più ruoli, ufficiali e non. E forse gran parte del senso di ciò che facciamo si trova nei momenti di passaggio».
Data recensione: 26/06/2008
Testata Giornalistica: Il Tirreno
Autore: Andrea Lanini