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Verrebbe da dire a ogni edizione di testi popolari di Lapucci: questa è senz’altro l’ultima, ora non ce ne restano più. E invece no, la prospettiva si allunga ogni volta. Scrive il Nostro nella premessa di questi due volumi:

Verrebbe da dire a ogni edizione di testi popolari di Lapucci: questa è senz’altro l’ultima, ora non ce ne restano più. E invece no, la prospettiva si allunga ogni volta. Scrive il Nostro nella premessa di questi due volumi: “Credo che ancora {!} non si abbia un’idea precisa dell’entità del tesoro delle tradizioni popolari italiane”. Ma dove eran nascoste – ci si chiede – fino a oggi? Resisi via via defunti i bisnonni ed i nonni, specie quelli paesani e campagnoli, soltanto a pochissimi di quanti hanno ora i capelli bianchi rimane da evaporare dalla mente qualche frammento di queste fiabe. Quel mondo – riferimenti, linguaggio, mentalità – è ormai perduto, i suoi estremi filamenti “vivi” risalgono ad almeno due o tre generazioni or sono. Lapucci ebbe la fortuna, o meglio il destino, di ritrovarsi un gran novellatore in casa, il babbo Enrico. Certo non basta ciò per fare di un bambino un futuro ricercatore di tradizioni popolari; ci vuole passione e competenza. E il Nostro ne ha da vendere.I due volumi sono divisi in sezioni tematiche; nel primo troviamo gli Animali, i Maghi, le Fate; nel secondo i Giganti, i Diavoli, le Storie di furbi e di sciocchi, con un’aggiunta di Favolette. Leggendo queste favole spesso godibilissime, occorre mettersi in una postura non di lettore, ma di ascoltatore. Il ritmo e il linguaggio che Lapucci ha avuto il merito grande di ricreare è infatti quello dell’oralità. Come per qualsiasi trasposizione stampata di un racconto trasmesso a voce di generazione in generazione, e ogni volta un pochino mutuato, ciò che si salva sulla pagina rischia di restarci mummificato. La fedeltà filologica al testo originario, che per la letteratura scritta è sacrosanta, per quella orale è in parte una falsificazione inevitabile, perché: qual è il testo originario? Lapucci, che è vero scrittore e vero affabulatore, si pone di fronte al lettore come uno di quei “veglianti” speciali che nella stalla o vicino al focolare riempivano di attesa e di meraviglia gli ascoltatori perlopiù analfabeti. L’oralità è perduta perché la scuola di massa l’ha abolita: e s’intende, fortunatamente. Ma ogni cosa ha il suo prezzo. La scrittura ha danneggiato, diciamo così, il mondo delle memorie vive, se non della Memoria. Altro rischio cartaceo: leggendo qui di séguito queste favole, ne spuntano bruscamente i meccanismi narrativi, ripetitivi. Ma ciò non guasta più di tanto, abituati come siamo agli ingranaggi che muovono oggi film e telefilm seriali: ogni epoca si costruisce una propria retorica standardizzata. La fiaba raccontata “a fiato”, con la giusta enfasi e localizzazione, annullava di fatto ogni serialità, così che il congegno narrativo, prevedibile, ne era anzi un punto di forza: già assicurato in partenza al protagonista un finale felice, ci si poteva sbizzarrire in disavventure strabilianti. Il lettore perfetto di queste favole dovrebbe (eroicamente) memorizzarle, e quindi raccontarle con il proprio ritmo, il proprio linguaggio: “tradirle”, insomma perché questa è la “tradizione”. La vera difficoltà, non nascondiamocelo, sta nel riproporle a un auditorio infantile – ma un tempo erano pane anche per gli adulti – oggi innocentemente smaliziato, che crede a eroi più o meno robotici, di certo più disumanizzati dei “morti di fame” furbi e determinati, che in questi racconti sposano alla fine la bella principessa. Turravia penso che giovi provarci: luce bassa e un caminetto acceso completerebbero il miracolo.Ma quale mondo viene fuori da queste fiabe “toscane”? Rispetto a quelle di altre regioni italiane, per non parlare di popoli diversi, si connotano per un senso equilibrato della realtà anche quando si lanciano nel fantastico, e poi in quanto rifuggono dall’orrido (nordico) anche parlando di spiriti o di diavoli (in genere sono “poveri diavoli”), e dall’eccesso del meraviglioso (meridionale); e soprattutto per una vena ironica – un antidoto alla dabbenaggine dei creduloni – che capillarmente compenetra ogni dettaglio narrativo. Forse è proprio questo il suo aspetto cripticamente più educativo. Ne che la fiaba toscana emoziona molto l’ascoltatore, ma non fino a sopraffarlo: dopo i salti della fantasia, si ritorna coi piedi sulla dura terra di tutti i giorni. La miseria era l’orizzonte di quel mondo, e da essa il protagonista veniva spinto all’avventura, ricorrendo alle risorse della furbizia più che della forza, e anche della crudeltà. La morale, talora epigrafata in versi nel finale, non era mai moralistica, e un lettore “progressista” potrebbe candidamente storcere la bocca; per non parlare del lessico. (Detto tra noi: la novellistica con finalità solidaristica, sfornata in quantita industriale dagli autori contemporanei, è penosamente esangue e finisce per essere fallimentare in quanto, non scavando nel cuoricino oscuro del ragazzo, non vi mette radici... E allora il fanciullino si bea degli squartamenti televisivi, questi sì, senza alcuna riuscita catartica). Ma oggi al supermercato si compra la ciccia cellofanata-con-filiera-di-provenienza, mentre allorasi tiravan due colpi sulla collottola al coniglio che ci aveva girato tra i piedi fino a un momento prima. Non era un mondo delicato, almeno secondo il nostro galateo eco-protezionistico. La sensibilità, anche linguistica, è assai mutata; non che i pargoletti d’oggi, più o meno scolarizzati, siano più educati di quelli che furono – casomai è il contrario! - ma al presente un adulto con profilo assiro-pedagogico, per es., non gli pronuncerebbe in faccia la parola culo, ricorrente in queste favole. Ed è un peccato, perché certe espressioni sono impareggiabili: “si mise a parlare sciù sciù sciù con la bocca a culo di pollo”, oppure “fingendo come una merda nell’erba”. Se pensiamo alle sfognature che colano dal teleschermo, quelle fanno addirittura tenerezza.Qual’è di tutte la mia favola preferita? La Dodolina. Ma non ve ne voglio parlare, leggetela da voi. Mi garba pensare che un fanciullino un po’ nasuto, secoli e secoli fa, l’abbia ascoltata a bocca aperta, e poi da giovanotto, divenuto poeta e innamoratosi di una ragazza pallida e bella, se ne sia rammentato, e si sia messo a scrivere la sua storia d’amore, intitolandola Vita nova.
Data recensione: 01/09/2008
Testata Giornalistica: Erba d’Arno
Autore: Marco Cipollini