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In un libro i piatti “politicamente scorretti” della tradizione culinaria ma ormai dimenticati perché considerati sconvenienti. Il motivo? È scomparsa la fame

In un libro i piatti “politicamente scorretti” della tradizione culinaria ma ormai dimenticati perché considerati sconvenienti. Il motivo? È scomparsa la fame, che faceva sembrare lecito uccidere quello che poi si sarebbe mangiato

Da un punto di vista strettamente pratico, c’è poca differenza fra uno spezzatino di vitello e uno di tasso. Eppure, fuorché per i vegetariani, mentre il primo ricorre senza problemi di coscienza sulle nostre tavole, l’idea del secondo fa inorridire al solo pensiero. E anche se appena un paio di generazioni fa non si andava troppo per il sottile, al giorno d’oggi, certe abitudini alimentari sono assolutamente inconcepibili. Com’è avvenuto tutto ciò? E quando è iniziato questo percorso di auto-limitazione della nostra “libertà” gastronomica? La risposta viene da uno smilzo libello destinato a suscitare discussioni, polemiche e forse anche qualche repulsione: “Ricette proibite” di Tebaldo Lorini (Sarnus, pp. 80, euro 10), da marzo in libreria. L’autore, esperto di folklore e tradizioni gastronomiche, passa in rassegna le abitudini alimentari dei popoli antichi, per arrivare fino a usanze più recenti che ancora sopravvivono qua e là, benché a volte vietate dalla legge: dal porcospino al sugo ai cosci di volpe alla brace, dalla zuppa di tartaruga allo scoiattolo in umido.
Eppure stabilire una netta linea di demarcazione fra il commestibile e lo “sconveniente” sarebbe impossibile, perché le leggi in materia cambiano da paese a paese. E se in Cina vige il credo secondo cui si può mangiare tutto quello che è vivo e si muove sulla faccia della Terra, in Scandinavia appare normale nutrirsi della carne di renna e in Australia vanno forte la carne di canguro e addirittura il Coccodrillo; nelle macellerie africane si espone senza alcuna remora carni di gorilla, antilope, gazzelle e cercopitechi, mentre nel Sud America si mangiano lama e porcellini d’India. È il relativismo culinario: possiamo inorridire per i cani mangiati in Corea, ma chissà che riprovazione provocheremmo noi italiani negli Usa, dove il coniglio è considerato un animale domestico e quindi non commestibile. Eppure in passato, per i morsi della fame, l’uomo è stato costretto a cose inenarrabili. E senza scomodare il cannibalismo del conte Ugolino, val la pena ricordare che durante l’assedio prussiano di Parigi del 1870, per non permettere alla popolazione di morire di fame, furono sterminati migliaia di topi di fogna e si dovettero abbattere anche gli animali dello zoo: elefanti, cammelli ma anche canguri e lupi. E il ristorante “Voisin” di rue Faubourg Saint-Honoré per il Natale del 1870 servì testa d’asino. Senza tralasciare che la scarsità di cibo del passato ha involontariamente reso anche un servizio alla gastronomia: si studiavano infatti sempre nuove ricette per rendere appetitoso quel che in realtà non lo era affatto.
Oggi la disponibilità di cibo ha consentito una maggior discrezionalità nella scelta dei cibi. “Si è sciolto il filo che ci legava nei secoli passati alla fame e ci faceva sembrare lecito uccidere tutto quel che poi sarebbe stato mangiato”, spiega l’autore. Eppure i lasciti di questa fame atavica restano ancora nel nostro linguaggio comune senza che nemmeno ce ne accorgiamo. Come mostra il celebre: “Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco”. Il motivo? Lo spiega Lorini nel libro: “Il gatto non è un vitello che si uccide con un colpo di pistola né con una stillettata come un maiale o un agnello, tanto meno si può uccidere con un colpo secco alla testa come un coniglio o un pollo. Il gatto, che diventa pericoloso e feroce quando si accorge di essere in pericolo, si uccideva mettendolo in un sacco e sbattendolo ripetutamente contro un muro. Si evitavano così i suoi graffi micidiali e i suoi morsi”. Orripilante, forse, ma autentico.
Data recensione: 23/02/2012
Testata Giornalistica: Il Velino
Autore: Paolo Fantauzzi