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Mamma troia. Tranquilli. Le parolacce qui non c’entrano nulla. O forse un pochino sì. Ma facciamo chiarezza

Un libro racconta come ci si divertiva nel Rinascimento: l’hanno scritto Alfredo Alfieri e Alfredo Scanzani

Mamma troia. Tranquilli. Le parolacce qui non c’entrano nulla. O forse un pochino sì. Ma facciamo chiarezza. In questo caso mamma troia non è un’espressione insultante, è uno dei giochi da ragazzi tra i più conosciuti d’Europa fino ad alcuni decenni fa.
Ci giocavano nella Firenze di Lorenzo Il Magnifico, ci giocavano in Olanda. Il Brugel lo raffigura in un suo dipinto. C’è pure una foto degli anni Cinquanta del secolo scorso che immortala dei ragazzini mentre giocano a mamma troia.
Basta un muro per giocarci. Un ragazzo ci si mette ritto appoggiato di spalle, gli altri stanno attaccati a lui nella posizione del “buco punzoni”, a novanta gradi per dirla geometrica, e poi comincia la carica di quelli che saltano sopra. Prima uno, poi un altro, poi un altro ancora. Tutti i cavalieri si piazzano sulle schiene avversarie e si mettono a ballonzolare di qua e di là cercando di spezzare il serpentone di quelli sotto. E viceversa. Vince il gruppo che rimane a “buco punzoni” più a lungo prima di cascare.
Poi c’è il gioco dei dadi: è la madre di tutti i giochi d’azzardo.
I frati e le monache han sempre detto: dadi figli del diavolo. C’è gente “dannata” che ha perso case e conti in banca al gioco dei dadi.
La Firenze del Rinascimento era impestata in ogni dove dal gioco dei dadi. Si conta una venticinquina di botteghe dove il popolo giocava ai dadi, ma ci giocavano anche gli aristocratici al fresco delle loro stanze protette.
Pure il Pulci cita il gioco dei dadi nelle lettere all’amico Lorenzo il Magnifico. Ma l’azzardo ha una madre antica. Viene dall’arabo az-zahar (dado).
E Dante infila i giocatori d’azzardo proprio all’Inferno (Divina Commedia, Inferno, Canto XIII). Le loro anime sono imprigionate negli “aspri sterpi” come quelli che si trovano “tra Cecina e in Corneto”: in Maremma, per dirla chiara.
Le Arpie mangiano le loro foglie e loro soffrono da morire tanto che quando Dante passa di lì con Virgilio e gli stacca un ramo fuoriescono sangue e lagnanze: “Perché mi schiante? Perché mi scerpi?”.
Se avessero saputo tutto questo forse i tre fratelli che in Maremma si giocarono ai dadi il privilegio di costruire una fortezza attorno alla quale, in seguito, sarebbe nato il borgo di Castell’Azzara (e torna zara), avrebbero rinunciato alla tentazione. I tre fratelli sono Ildebrandino, Bonifacio e Guglielmo Aldobrandeschi. L’anno è il 1212.
Ma a Firenze e in Toscana si facevano anche giochi più innocenti. Le bocce. Chi è che non le conosce? Nel Rinascimento si chiamavano le pallottole. A Firenze ci giocavano da tutte le parti. Oggi piazza delle Pallottole, ristretta tra piazza San Benedetto, affaccio sul lato destro del Duomo, angolo via dei Bonizzi-via dei Maccheroni, rammenta il luogo dove si svolgeva il gioco. Ma frati e monache erano infastiditi dagli schiamazzi: non riuscivano a pregare. E così spuntarono gli Otto di Balia. Erano i signori dell’ordine pubblico a Firenze dal 1376 al 1777. Permisero questo divertimento soltanto fuori le mura.
Proprio nell’attuale via Dante Alighieri resiste una legge di pietra (la scritta in una lapide attaccata al muro di un palazzo) che ammoniva: “I sig. Otto proibiscono il gioco di palla pallottole et ogni altro strepitoso vicino alla Badia braccia venti sotto pene rigorose”.
Un gioco famoso non varrebbe manco la pena di citarlo. Lo conoscono tutti. È’ il calcio storico. Detto meglio: il giuoco del calcio fiorentino. Una sorta di mescolone tra rugby e boxe. Ricorderemo solo che i fiorentini ci giocarono il 17 febbraio 1530 in piazza Santa Croce durante l’assedio dell’esercito imperiale di Carlo V coi musici sul tetto della basilica per farsi sentire dai soldati nemici accampati sulle colline.
Ma perché vi parliamo di tutti questi giochi? Perché c’è un libro gustosissimo che è uscito sull’argomento. Si chiama “Giochi a Firenze e in Toscana nel Rinascimento”. Uno dei suoi autori, il giornalista Alfredo Scanzani, ne racconta la genesi: «Anni fa io e l’Altieri (l’altro autore, ndr) trovammo un libro in biblioteca Laurenziana. Dentro c’erano due elenchi manoscritti anonimi di giochi sul Rinascimento». E da lì è partita “la bambola”.
Data recensione: 27/06/2020
Testata Giornalistica: Il Tirreno
Autore: Samuele Bartolini