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Beatrice Bugelli di Pian degli Ontani, la cui esistenza si è dipanata dal 1803 al 1885, dalla Toscana granducale all’Italia unitaria, sulla montagna pistoiese e con qualche puntata a Firenze, non è una macchietta, non

Beatrice Bugelli di Pian degli Ontani, la cui esistenza si è dipanata dal  1803 al 1885, dalla Toscana granducale all’Italia unitaria, sulla montagna  pistoiese e con qualche puntata a Firenze, non è una macchietta, non è l’icona  folcloristica e umile di ricchi mecenati inglesi di passaggio nell’Italia dell’ Ottocento. La «poetessa montanara », interprete dell’ottava rima stimata e  raccolta da Tommaseo, Ruskin e Renato Fucini – lei, infatti, non ha scritto  nulla – è una figura con un suo spessore umano che riflette la sapienza con-  tadina germinata su un forte senso di pietas cristiana. È una cultura che si  colloca nel solco della riflessione dei pastori e del loro canto, antico e  celebrato, non di rado frutto del rapporto con Dio negli spazi, talvolta  sconfinati, dell’erranza. Alla poetessa lo scrittore Paolo Ciampi ha dedicato  il suo   Beatrice, edito da Sarnus (pagine 138, euro 10). Vi ha trovato non solo la  possibilità di scrivere una bella storia, ma anche uno specchio del sentire  possibile, da assumere dal contesto contadino- montanaro ottocentesco e da  inverare nell’uomo urbanizzato di oggi.    L’autore cerca di fare uscire Beatrice dal ’ quadretto’ – qualcosa che  rimane anche nel famoso testo di Francesca Alexander – attraverso una prosa  lirica e attenta, con asciuttezza, qualità che si sono levigate e affinate  lungo un percorso di ricerca che ha portato Ciampi a incontrare le storie del  viaggiatore Odoardo Beccari (1843-1920), quindi del poeta schiavo in Nord  Africa Filippo Pananti (1776-1837), e ancora, in Jessie White ( 1832- 1906), la  « miss Uragano » infermiera dei Mille. Tre storie ricostruite e raccontate per  Polistampa.    Un altro testo, edito invece da Giuntina, si pone in questo solco: Un nome,  con il quale Ciampi ha riconsegnato alla nostra memoria la vicenda della  professoressa ebrea Enrica Calabresi. Anche qui, seppure sondando l’abisso  della tragedia della Shoa, Ciampi raccoglieva la domanda a non lasciare cadere  la storia dietro un nome. «Beatrice» ambisce – e riesce – a uscire dal  livellamento. Ciampi sceglie lo strumento del dialogo, o meglio, la voce  narrante, quella di Beatrice, che parla dal letto di infermità, presuppone  accanto un’altra persona: qui viene chiamato il professore. Sarebbe lo  scrittore Renato Fucini, autore de Le veglie di Neri.   Ciampi fa parlare Beatrice utilizzando – e qui è da segnalare un forte  impegno filologico di analisi dei testi – il linguaggio della sue epoca. Ci  viene restituito il vissuto di Beatrice, quello della sua comunità, il  vocabolario, esteriore e interiore, di sé e della sua gente, con un messaggio  che sintetizza il senso possibile della vita: solo l’amore vince il tempo, la  vita consumata dal sale e dal carbone, la piogga che distrugge i villaggi e la  neve che inghiotte nella bufera una povera ragazza, «la piccola Maria senza  ragione», la fatica che uccide uno dei suoi figli. Dio la accompagna. «Non era  la bellezza a conquistarmi – racconta al «professore» – Ero io a coglierla alla  sprovvista… Come un mistero che si svela e che un attimo dopo ti scappa ancora…  (Dio) l’ho avvertito nel cuore… ho sentito che c’è». Anche questo amore si fa  ottava rima e visione del vivere con gli altri: «Ricchi e ricconi – racconta  Beatrice – li pungevo a dovere, perché lo sapevo, lo so bene, che il soldo fa  superbia, ma poi siamo tutti uguali, dinanzi al Creatore».    Ed eccola una composizione raccolta dalla bocca di Beatrice: «Ricco non è  chi di be’ panni è ornato,/ povero non è colui che è mal vestito./ Ricco è che  ha la pace e l’umiltade,/ chi ha la carità del so nemico./ Ricco è colui che  tien Gesù nel core/ vive felice poi contento more ». Da questo senso cristiano,  che rende popolana la parabola, Beatrice ricava la chiarezza dell’aut aut: «Una  fontana non può far due fiumi;/ e se li fa, non li può far correnti./ Una  candela non può far due lumi;/ e se li fa, non li può far lucenti./ Una campana  non può far due suoni,/ e se li fa non li può far sonori./ Una ragazza che ha  due amatori,/ tutti e due non li può far contenti./ E li può far contenti sei  vuole:/ uno di fatti, l’altro di parole./ E li può far contenti, se volesse:/  uno di fatti, e l’altro di promesse». Tommaseo e Ruskin si misero nel solco di  Beatrice Bugelli, musa ottocentesca a cui ora Paolo Ciampi dedica un racconto  che ne rilegge la profonda pietas.
Data recensione: 19/08/2008
Testata Giornalistica: Avvenire
Autore: Michele Brancale