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Per entrare nell’antro dell’orco si scendono tre gradini. Fuori piove a dirotto, la temperatura è autunnale, ma alle 10 del mattino il fuoco nel camino è ancora spento e in cucina

Per entrare nell’antro dell’orco si scendono tre gradini. Fuori piove a dirotto, la temperatura è autunnale, ma alle 10 del mattino il fuoco nel camino è ancora spento e in cucina non vedo traccia di porcospini al sugo, storni in salmì, ghiri arrosto e scoiattoli in umido. Sul tavolo c’è solo un canovaccio bianco coperto di piselli appena sbucciati: «Dell’orto nostro. Ovvia, oggi li si fa all’olio, come contorno, al massimo con un par di fette di presciutto». Accanto ci sarebbe anche Il Galletto, per il momento non ancora ai ferri, trattandosi del settimanale del Mugello e della Valdisieve. Su una sedia sonnecchia Codina bianca, una delle due micie – l’altra è Foffina – che allietano le sue giornate. È arrivato a tenerne fino a otto, contemporaneamente, di gatte, «e tutte hanno potuto avere almeno due gravidanze, perché mi dispiaceva farle sterilizzare». A scanso d’equivoci: Miula, Sophy, Drillina, Bianca, Lippi e le numerose compagne riposano in pace nel giardino trasformato in cimitero.
Povero Tebaldo Lorini, trasformato a mezzo stampa in mostro preventivo e costretto da quasi quattro mesi a sopportare lo stalking degli animalisti più scriteriati. L’unica sua colpa, se di colpa si può parlare, è quella d’aver dato alle stampe, con devota monomaniacalità, una dozzina di libretti frutto di un amore viscerale, anzi gastrico, per la sua terra: La fiorentina in Mugello, Il tartufo in Mugello, Funghi in Mugello dal bosco alla tavola, Il vero tortello mugellano, Marroni e castagne tesori dal Mugello, Mugello dalla caccia alla tavola, e via mugellando. Dopodiché, esaurito tutto l’esauribile, ha pensato bene di pubblicare, per i tipi delle Edizioni Polistampa di Firenze, Ricette proibite, sottotitolo Rane, asini, rondinotti, gatti e tartarughe nella tradizione alimentare, «un libro originale e destinato a far discutere», secondo il profetico claim dell’editore.
Infatti. Della ghiotta anticipazione s’è impossessata l’agenzia di stampa Il Velino il 23 febbraio. Il 24 l’ha ripresa l’Ansa. L’indomani il reprobo è stato spellato vivo sulle pagine del Giornale da Oscar Grazioli, veterinario e scrittore. La notte del 26 i militanti del movimento Centopercentoanimalisti hanno preso d’assalto l’Editoriale di Bologna, la Distribook di Milano e la Cierrevecchi di Limena, che distribuiscono il libro sul territorio nazionale. E decine di anonimi, profittando del fatto che l’incauto autore è sull’elenco della Telecom, hanno cominciato a tempestare di telefonate irriferibili l’abitazione di Lorini a Borgo San Lorenzo. «Soprattutto donne, cattivissime», sospira. «Me ne hanno dette di tutti i colori: delinquente, mascalzone, assassino, carogna, infame... Non c’è stato verso di farle ragionare. Le più gentili mi hanno augurato la stessa morte riservata agli animali nelle antiche ricette da me raccolte. Le capisco. Magari sono signore che vivono da sole e hanno come unica compagnia il loro gatto. Ma la cosa che più mi ha impressionato è che tutti, agenzie di stampa, giornalisti, animalisti, lettori, mi hanno crocifisso prim’ancora di avere fra le mani il libro, visto che è uscito soltanto il 1° marzo». A dispetto del nome di battesimo scespiriano, che lo vorrebbe incline alla rissa sino a farsi uccidere da Romeo, il mite Lorini non intende rinfocolare le polemiche: «Comprendo le reazioni, per quanto esagerate e ingiustificate. Va’ a spiegarlo, agli amici degli animali, che la mia voleva essere solo un’operazione culturale. Se permettono, sono un amico degli animali anch’io».
Lorini, geometra oggi in pensione, è nato nel 1943 ed è sposato dal 1970 con Mara Cipriani, dalla quale ha avuto due figli: Luca, 41 anni, fisico specializzato in laser che nei laboratori del National institute of standards and technology di Boulder, in Colorado, ha costruito l’orologio atomico più preciso del mondo («perde un secondo ogni 400 milioni di anni») e ora lavora all’Inrim, l’Istituto nazionale di ricerca metrologica di Torino da cui proviene il segnale orario della Rai, e Silvia, 35 anni, medico. La moglie è un’abilissima cuoca. «Ci si sveglia la mattina e ci si chiede: che facciamo oggi da mangiare? Una cosa che non ci piace, ’un la si fa». Colesterolo (270) e trigliceridi (320) dello scrittore sono commisurati all’impegno mattutino per la buona tavola. «Mangio di tutto, compresi sughi, fritti e dolci, però mai a sazietà. Mi alzo da tavola con la fame. Il fatto è che resto sempre 100 chili». La persecuzione ponderale è da ascriversi a uno scontro frontale in auto il 20 dicembre 2008: «Tre mesi in coma, più altri 9 d’ospedale, con un’emorragia cerebrale e tre arresti cardiaci, uno della durata di 5 minuti, i medici si meravigliano che il cervello mi funzioni ancora. Ho subìto 12 interventi chirurgici. Mi hanno asportato la milza e la cistifellea. Ho le gambe riempite di chiodi e viti, fatico a camminare ed è il motivo per cui ingrasso anche senza mangiare. Quindi, tanto vale mangiare».
È sempre stato una buona forchetta?
«Tutt’altro. Ero un inappetente cronico. Da ragazzo detestavo persino la pastasciutta. La carne mi faceva senso».
Come le è saltato in mente di scrivere Ricette proibite?
«Ricordando i racconti di mia madre che viveva negli stenti. Mio nonno Agostino, ormai molto anziano e inabile al lavoro, prendeva il pane con la tessera annonaria e consegnava a lei la sua razione, dicendole: “Bambina, ’un ho fame, mangialo te”. In realtà se lo toglieva di bocca. Ho cominciato più di 30 anni a raccogliere le antiche ricette dagli anziani contadini, affinch´ non andassero perdute. Le ho pubblicate tutte. Mi restavano nel cassetto quelle politicamente scorrette».
Poteva lasciarcele.
«A dire il vero avevo deciso di smettere con la cucina. Ne parlano tutti, in televisione, sui giornali, ’un se ne pole più! Ma quando l’editore Mauro Pagliai le ha viste, era entusiasta e m’è toccato dirgli: va bene, lo fo. È un libro storico».
Mica tanto. Se lei riporta la ricetta del gatto in «civet», tagliato a pezzi e messo a marinare con vino rosso, sale, pepe, bacche di ginepro, chiodi di garofano, cannella, aglio, cipolla, carota a fette, sedano a rondelle e un mazzetto di alloro e timo, è quasi un’istigazione a delinquere, perché insegna come si fa.
«Non lo mangerei mai, nemmeno morto! Parlo di me, non del gatto. Si figuri. Qui in Toscana è molto ricercato l’istrice, per le carni prelibatissime. Si fa arrosto o a spezzatino. Nelle trattorie di Scansano, Orbetello, Montemerano e Saturnia lo usavano come condimento sulle pappardelle. Un amico me l’ha portato, l’aveva investito con l’auto per sbaglio. ’Un s’è mangiato. L’ho tenuto in freezer due mesi e poi l’ho regalato. Ma conosco un medico di famiglia, ormai novantenne, che voleva a tutti i costi portarmi a mangiare il gatto in un ristorante di Vicenza».
Non c’è andato, mi auguro.
«Certo che no. Ma perché avrei dovuto censurare la terribile spiegazione che la medesima persona mi ha dato del proverbio “Non dire gatto se non è nel sacco”? Una frase di cui ignoravo il significato, nata dalla fame umana. Il gatto diventa giustamente feroce quando è in pericolo, per cui lo si uccideva mettendolo in un sacco e sbattendolo contro il muro per evitare i suoi graffi e i suoi morsi».
Lei farà la fine di Beppe Bigazzi, cacciato dalla Rai perché alla Prova del cuoco ha raccontato che in Valdarno «uno dei grandi piatti era il gatto in umido».
«Lo conosco Bigazzi, è di Terranuova Bracciolini. Doveva venire a presentare il mio libro, ma non se l’è sentita. Comprensibile: io non ho perso nulla, lui ha perso tutto, gli hanno stroncato la carriera».
Edoardo Raspelli mi ha confessato d’aver assaggiato la marmotta, ma nessuno l’ha cacciato da Melaverde. Che il simpatico animaletto del club di Topolino sia più scemo del gatto?
«La marmotta è selvatica. Nel gatto c’è di mezzo il sentimento, come nel cane, che però in Cina, in Corea e nelle Filippine viene messo ai ferri. Sto male solo a dirlo. Mi torna in mente Serafino, un trovatello che mi ha tenuto compagnia per 15 anni».
Insisto: ma a che cosa serve un ricettario, visto che a nessuno verrebbe in mente di cucinarsi il micio di casa?
«E a che serve riportare in Wikipedia la formula della bomba atomica in grado di distruggere l’umanità? Io non sono spinto a fare le cose che leggo e presumo che gli altri siano come me».
Allora avrebbe dovuto ricevere lettere e telefonate di complimenti, anziché di riprovazione.
«Ma ho ricevuto anche quelle. Tantissimi hanno capito che la mia è solo una controstoria. E che fai? Te la prendi con la storia? Per chi aveva fame, il gatto era una preda facile. E un nemico, perché s’introduceva nelle cucine e rubava il cibo. L’uomo che mi aiuta a tenere in ordine il giardino viene dal monte Amiata e mi ha raccontato che negli anni Cinquanta le famiglie la domenica condivano le tagliatelle col ragù di gatto al posto del sugo di lepre. Lì è ancora diffusa l’usanza di mangiare i gatti selvatici, che vivono numerosi nelle foreste e disturbano i cacciatori facendo strage delle covate dei fagiani. Nel Trecento in Toscana si dava da mangiare agli ignari ospiti il gatto al posto del coniglio, come racconta il novelliere Franco Sacchetti. Così fece il pievano della Tosa con messer Dolcibene, il quale contraccambiò facendogli mangiare dei topi».
Non solo in Toscana e non solo nel Trecento.
Della sua infanzia di miseria a Mortara, nel Pavese, la contessa Marta Marzotto mi ha raccontato: «La mia frustrazione più grande fu quando m’impedirono di mangiare un topo cucinato per mio fratello. A mia madre avevano raccontato che quello era l’unico modo per curare l’enuresi notturna di Arnaldo. Ma io non facevo la pipì a letto, quindi niente sorcio». Si calcola che nel 1870, durante l’assedio prussiano alla Comune, i parigini abbiano mangiato 25 milioni di topi, oltre che tutti gli animali rinchiusi nella M´nagerie du Jardin des Plantes, lo zoo».
Ma lei ha mai assaggiato qualche ricetta proibita? Su, confessi.
«Mi ripugnano persino le lumache. In Costa Rica volevano farmi mangiare “el pollo de palo”. L’ho rifiutato».
Non dev’essere quello Aia, immagino.
«È l’iguana. Lo chiamano così perché vive sui tronchi degli alberi. Ero in un hotel di Playa Hermosa, di proprietà di Enrico Visani, un amico pittore di Bologna. Il quale da anni insisteva invano col suo chef perché gli facesse un ragù di coniglio».
Non si mangia il coniglio in Costa Rica?
«No, e neppure negli Stati Uniti. È considerato animale da compagnia, alla stregua di cane e gatto. Poi un giorno ha scoperto perch´ il cuoco non si decideva a farglielo: temeva che il proprietario dell’albergo, dopo averlo mangiato, assumesse il comportamento sessuale del roditore. Pongo un interrogativo ai benpensanti. Alcuni animali hanno avuto la triste sorte d’essere prescelti per nutrire la razza umana e vengono abbattuti in milioni di esemplari. Forse che possiamo interessarci al caso individuale e non alla specie?».
Solo ai tempi del Ruzante si metteva in teglia tutto ciò che respirava.
«Mi fa venire in mente che a Padova, la città di Angelo Beolco, conosco un tecnico di diluenti per tipografia, appassionato di distillati, che si fa la grappa alla vipera».
Si produceva anche sull’altopiano di Enego, nel Vicentino. Conservo la foto di un salumiere di Verona che la vendeva: si vede la bottiglia col serpente velenoso, ovviamente morto, che galleggia nell’acquavite.
«L’opinione dei cinesi resta quella ruzantiana: si può mangiare tutto quello che è vivo e si muove sulla faccia della Terra. Dal punto di vista etico è peggio uccidere un gatto o un animale in via d’estinzione?».
Quesito respinto. Questa è un’aporia. Vince la mozione degli affetti.
«Eppure di gatti se ne vedono in giro tanti, dobbiamo persino fare i conti col fenomeno del randagismo, mentre di rondoni ne sopravvivono pochissimi. In cima alle leopoldine, le case coloniche costruite dopo le bonifiche in Valdarno, Maremma e Valdichiana durante il Granducato di Leopoldo, c’erano delle torrette con una serie di fori circolari, che servivano da nido ai rondoni. Una forma d’allevamento: d’estate i contadini catturavano i piccoli prima che imparassero a volare e li mettevano arrosto. Era un pranzo da gran signori».
Il suo «arrosto morto», fatto con i piccoli di volpe appena partoriti, è da trattato di criminologia.
«Arrosto morto perché si fa in teglia, non sul fuoco vivo. Anche qui c’entra la fame atavica. Quando la volpe faceva strage nel pollaio, era una tragedia. Il pollo infatti era l’unica risorsa dei mezzadri: a differenza del maiale, non bisognava dividerlo col padrone, quindi si poteva vendere al mercato e ricavarne qualche soldo con cui comprare la dote per la figlia da maritare. Il cacciatore sterminava i volpacchiotti, poi faceva il giro delle fattorie e le donne lo ricompensavano regalandogli uova».
Che cosa rende l’uomo superiore agli animali?
«Superiore non è. Semmai uguale. Anche gli animali, esclusi gli erbivori, mangiano gli animali. L’omo è nato onnivoro, che ci vole fa’?».
Data recensione: 17/06/2012
Testata Giornalistica: Il Giornale
Autore: Stefano Lorenzetto