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Il cibo non è soltanto un atto necessario per vivere, un serrare le mascelle su aggregazioni di sapori, profumi e colori

Il cibo non è soltanto un atto necessario per vivere, un serrare le mascelle su aggregazioni di sapori, profumi e colori, che indubbiamente fanno bene all’anima, oltre che a sostenere il corpo. Il cibo è molto di più, è una componente dell’identità di un popolo, spiega spesso i suoi usci e costumi sociali e religiosi, la provenienza geografica, le relazioni intercorse con altri popoli nel corso dei secoli. Così come, studiando l’evoluzione dei piatti consumati da una data civiltà, si possono in parte capire anche le sue vicissitudini storiche, le carestie affrontate, la sua stratificazione sociale. Maria Concetta Salemi, studiosa del cibo in quanto elemento culturale fondante dell’identità dei popoli, ha dedicato all’argomento numerosi articoli su riviste specialistiche, nonché volumi questi ultimi in particolare dedicati all’identità gastronomica toscana. Fra le sue ultime fatiche in questo senso c’è Poveri toscani! (2020), preceduto nel 2018 da Mangiare nel Medioevo, editi entrambi per i tipi di Sarnus, etichetta della casa editrice fiorentina Polistampa. Discettando di cucina medievale, Salemi traccia prima di tutto un esauriente quadro storico-sociale sul Medioevo in Italia, stretto fra la violenza delle invasioni barbariche e le pestilenze con le conseguenti, devastanti carestie, nonché un radicatissimo pietismo religioso che condizionava quasi ogni momento della vita del fedele cristiano. Oltre che delle caratteristiche geo-morfologiche del territorio, il cibo medievale è specchio di quelle precise condizioni storiche e sociali. Salemi traccia un esauriente ritratto della società dell’epoca, raccontando la città e la campagna, la chiesa e l’aristocrazia, il popolo con le taverne, il Carnevale e la Quaresima, appuntamenti questi ultimi fondamentali nel “calendario” del cibo. È interessante vedere come il variare dei piatti seguisse il variare delle stagioni e il calendario liturgico, con i giorni “di magro” e “di grasso”, e quei cibi che erano allegorie della Passione di Cristo. Usi che in parte sono rimasti ancora oggi, mentre è andato quasi del tutto perso l’accordo con le stagioni, poiché nella nostra epoca votata al consumismo isterico, è disponibile tutto e in qualsiasi momento, senza domandarsi se una pesca mangiata in dicembre abbia lo stesso sapore e le stesse proprietà nutritive di una mangiata in estate. Ma tant’è, oggi il cibo è o una necessità da soddisfare nel minor tempo possibile, o una manifestazione di pacchianeria e spettacoli televisivi. A riportare il lettore nella grazia dell’antichità, il bell’apparato iconografico che arricchisce il volume, e una selezione di ricette medievali, dove si scopre l’importanza delle spezie, delle salse, del miele, così come la differente sequenza dei piatti o gli abbinamenti degli ingredienti. Una civiltà, quella medievale, che aveva sì nel cibo una discriminante sociale, ma che in fondo era più gioiosa di quanto si possa pensare a conoscerla superficialmente, e che aveva con il cibo un rapporto quasi mistico, stante la simbologia che lo rivestiva: basti pensare non soltanto ai piatti delle feste religiose, ma anche alla cacciagione, le cui varie parti erano assegnate, nelle famiglie nobili, a seconda del grado di prestigio e di anzianità. La caccia era infatti un vero e proprio rito, di cui l’autrice traccia un esauriente resoconto. Usanze che però erano in voga soltanto nella ristretta minoranza degli aristocratici; per la maggioranza della popolazione, rigorosamente contadina, la realtà era ben diversa, e gli svaghi erano quelli offerti dalle taverne, luoghi di vizi e occasionali piaceri, accompagnati da cibi semplici ma gustosi, come rape cotte nel grasso, lenticchie accompagnate da carne di suini. Pregio del libro è anche il tracciare, dal punto di vista del cibo, un ritratto della società medievale con i suoi riti, i suoi costumi, le sue credenze, un qualcosa da gustare e condividere con gli altri, nella placidità dei cicli dettati dalla natura. Perché in passato il tempo scorreva molto più lentamente di oggi, i cambiamenti si susseguivano a lunghissimi intervalli, tanto che la cucina medievale popolare non differiva molto dalla cucina contadina che si è tramandata fino agli anni Sessanta del Novecento. Una cucina che Salemi racconta e riscopre in Poveri toscani!, un volume che è un viaggio nel tempo e nello spazio, fra la Maremma, il Casentino, la Lunigiana, la Garfagnana, la piana pratese e fiorentina, fino all’Isola d’Elba. Microterritori di cui l’autrice traccia brevi ma luminosi e garbati ritratti, e che almeno fino agli anni Sessanta del Novecento sono rimasti pressoché inalterati rispetto ai secoli medievali. Così come poco erano cambiate le abitudini, e le possibilità, alimentari delle classi più umili. Il cibo come liturgia del tempo, come calendario dei cicli della natura e del susseguirsi delle feste comandate. Una cultura di cui sono stati cantori poeti, scrittori, viaggiatori, italiani e stranieri, molti dei quali dimenticati, come Policarpo Petrocchi, nativo di Castello di Cireglio, sull’Appennino pistoiese. Ma al di là della conservazione della memoria storica e della conoscenza, dove libri del genere possono essere ancora utili al lettor di oggi? È necessario premettere che celebrare l’antica cucina popolare non significa celebrare la miseria, che spesso era frutto di autentiche ingiustizie sociali. Diversamente, riscoprire questi piatti, ritrovare intatti sapori semplici e genuini, significa prima si tutto rendere omaggio a tutte quelle donne che nei secoli passati hanno saputo sfamare figli e mariti grazie al loro ingegno nell’ottenere il massimo del gusto e della sostanza da ingredienti semplici, spesso disponibili in quantità ridotte. Avveniva quindi, per mano di queste straordinarie donne, una sorta di “miracolo dei pani e dei pesci”, che ci dà la misura della straordinarietà della civiltà del passato, contadina in particolare, capace di evitare gli sprechi, di fare del cibo un momento di condivisione. E non è vuota retorica: nella semplicità di queste zuppe o minestre asciutte, si ritrova tutta l’armonia e la convivialità che univa le antiche famiglie contadine attorno alla tavola nella grande cucina riscaldata dal caminetto, o nelle ancor più modeste cucine delle famiglie operaie. Ma in città o in campagna, la povertà era uguale per tutti, e poco differivano le parche mense familiari. Come ci si riuscisse, lo dimostra l’ampio ricettario recuperato dall’autrice, che di ogni piatto, dalle zuppe alle minestre, dalla carne al pesce, spiega al lettore origine gastronomica ed etimologia, le varianti storiche e le declinazioni territoriali. L’autrice però si sofferma non tanto sulla quantità (mai abbondante, a causa della povertà), quanto sulla qualità di quegli ingredienti e di quei cibi: grani antichi, tanta verdura, erbe aromatiche, una parca “grattata” di formaggio quando necessario, un “filo” d’olio d’oliva, poca carne, soprattutto le parti meno nobili, ma sicuramente più economiche e gustose. Un apparato iconografico con documenti e fotografie d’epoca contribuisce a restituire intatta l’atmosfera del passato. Ricordiamo infine che il cibo non è soltanto cultura, è anche e soprattutto il primo strumento per costruire e mantenere la salute del nostro corpo. Riscoprire ricette antiche, semplici, francamente povere negli ingredienti, potrebbe oggi sembrare un atto “fuori moda”, un avvilire di se stessi, quando in realtà sarebbe il primo passo per tornare a essere sani. Tante delle allergie alimentari, dei disturbi di stomaco (dalla gastrite ai tumori) e del fegato, sono purtroppo attribuibili a farine troppo raffinate, a un eccessivo consumo di carne, Mangiare “povero” non significa essere poveri in sé, non significa A meno che non se ne faccia una questione d’apparenza, e piaccia riempirsi la bocca di marchi altisonanti, di chef famosi ma più o meno capaci, di cocktail “social” nei locali alla moda, e altre pacchianerie del genere. Bisognerebbe poi ricordare che un’alimentazione sana è anche un atto politico per un mondo più pulito (ecologicamente e moralmente) e per un’economia più sostenibile; senza far troppo rumore, senza bisogno di finire sotto i riflettori, senza inscenare manifestazioni d’impatto mediatico ma di scarso risultati concreti… si potrebbe fare più attenzione a quello che mettiamo nel carrello, anche ispirandoci alla cucina del passato. Neppure l’emergenza, non ancora finita, causata dalla pandemia del Coronavirus sembra aver indotto l’umanità a un ripensamento dell’impatto sull’ecosistema, a una maggior tutela della salute pubblica, Azioni che passano anche da scelte alimentari più attente, con cicli produttivi locali e prodotti stagionali a più salubri. La rete delle Case delle Erbe è una realtà che molto sta facendo nell’ottica di un ritorno alla natura e alla cultura della semplicità alimentare, ma la strada è ancora lunga. Soprattutto perché scarsissimo è il sostegno pubblico verso queste realtà che, educando al buon cibo, educano anche al rispetto dell’ambiente e, di conseguenza, delle persone. Formano – grazie all’impegno di queste donne coraggiose che hanno messo in piedi la rete –, i buoni cittadini di domani, quelli che invece non forma la scuola. Ecco perché libri come quelli di Maria Concetta Salemi sono benvenuti, e andrebbero letti o discussi almeno alle scuole medie, per educare i giovani a un’alimentazione sana, a consumi responsabili, e, perché no, ad essere anche cittadini migliori. In fondo, siamo quello che mangiamo.
Data recensione: 01/12/2020
Testata Giornalistica: Eudonna
Autore: Niccolò Lucarelli